Recuperare la Cauzione in Caso di Muffa nell’Immobile

Nel corso della locazione, può capitare che l’immobile affittato presenti gravi problematiche di umidità e muffa, causate dall’inadempienza del proprietario nel garantire la regolare manutenzione. Tali carenze, che compromettono il godimento dell’appartamento e ne rendono l’ambiente insalubre, possono indurre l’inquilino a recedere anticipatamente dal contratto. Un quesito che sorge di frequente in queste situazioni è se sia possibile ottenere la restituzione della cauzione, versata al momento della stipula, in presenza di questi vizi. La normativa vigente e la giurisprudenza consolidata offrono chiarimenti fondamentali su questo tema, ribadendo l’obbligo del locatore di restituire il deposito cauzionale al termine della locazione, con l’aggiunta degli interessi legali maturati, qualora non vi siano stati danni specificamente accertati.

Il principio alla base di questo orientamento giurisprudenziale è che il locatore, ai sensi del codice civile, ha l’obbligo di garantire al conduttore il pacifico godimento dell’immobile. Quando questo requisito non viene rispettato a causa della mancata manutenzione e della conseguente proliferazione di muffa, il conduttore non solo ha il diritto di recedere anticipatamente dal contratto, ma può anche richiedere la restituzione integrale della cauzione. Le sentenze della Cassazione Civile, in particolare quella della Sezione III, n. 18069 del 5 luglio 2019, hanno chiarito che il deposito cauzionale deve essere restituito non appena il conduttore rilascia l’immobile, a meno che il locatore non proponga espressamente domanda giudiziale per coprire danni specifici o importi rimasti impagati. Analogamente, la pronuncia della Cassazione, sentenza n. 194 del 5 gennaio 2023, ha sottolineato che il locatore può trattenere la cauzione solo se supporta la propria richiesta con una domanda giudiziale mirata, in grado di dimostrare in maniera oggettiva e perizia il quantum dovuto a titolo di risarcimento.

Quando il problema riguarda gravi vizi dell’immobile, quali la presenza costante di muffa dovuta a carenze strutturali e a una manutenzione insufficiente, il conduttore ha fondati motivi per invocare la risoluzione del contratto ai sensi dell’articolo 1453 del Codice Civile. L’inadempienza del locatore, infatti, si traduce non solo in una violazione degli obblighi contrattuali e di buona fede previsti dall’articolo 1337, ma anche in un’azione lesiva del diritto del conduttore a vivere in un ambiente salubre. In questi casi, la restituzione della cauzione diventa una conseguenza naturale: l’inquilino, costretto a recedere per non poter più utilizzare l’immobile per il suo scopo convenuto, non deve subire ulteriori danni economici oltre a quelli derivanti dalla perdita dell’abitazione.

La situazione si complica se il locatore tenta di trattenere il deposito per giustificare eventuali danni all’immobile. Tuttavia, se il proprietario non riesce a dimostrare in modo oggettivo e documentato che l’uso improprio o il degrado dell’appartamento sia imputabile al conduttore, la trattenuta della cauzione risulta infondata e illegittima. È infatti escluso che un’auto-quantificazione dell’indennizzo, effettuata unilateralmente dal locatore, possa integrarsi nella legittimità del deposito trattenuto. Solo un giudice, attraverso un’eventuale perizia e una valutazione imparziale, può decidere l’ammontare effettivo dei danni e stabilire se vi sia un diritto a trattenere una parte della cauzione.

In questi contesti, il conduttore ha a disposizione diverse strategie per far valere i propri diritti. Un primo passo fondamentale è l’invio di una raccomandata con ricevuta di ritorno al locatore, nella quale si richiede formalmente la restituzione della cauzione entro un termine ragionevole, ad esempio quindici giorni. In tale comunicazione è importante evidenziare che il recesso anticipato è stato determinato da gravi inadempienze contrattuali, derivanti dal mancato intervento di manutenzione per risolvere i problemi di muffa e umidità, e che il diritto a un ambiente salubre è garantito dalla normativa vigente. Se, nonostante la diffida, il locatore persiste nel trattenere il deposito, il conduttore potrà ricorrere all’azione giudiziaria. In presenza di un contratto regolarmente registrato, è possibile richiedere un decreto ingiuntivo per ottenere in via giudiziale la restituzione della somma, unitamente agli interessi legali maturati.

Oltre al recupero della cauzione, il conduttore potrebbe avere diritto al risarcimento dei danni subiti a causa dell’obbligo di lasciare l’immobile prima della scadenza del contratto. In tal modo, non solo si recupererebbe il deposito cauzionale, ma si potrebbe anche ottenere un compenso aggiuntivo per il disagio e le spese eventualmente sostenute nel trasferirsi o nel trovare una nuova abitazione. Questa possibilità, tuttavia, richiede una valutazione accurata delle prove, in quanto occorre dimostrare che la proliferazione della muffa e dell’umidità non fosse imputabile a comportamenti o a carenze del conduttore.

Il quadro normativo e giurisprudenziale offre, dunque, strumenti chiari a tutela del conduttore. Il diritto a un’abitazione salubre è considerato un requisito fondamentale del contratto di locazione, e la mancata osservanza di tale obbligo da parte del locatore costituisce un inadempimento grave, giustificando sia il recesso anticipato che la restituzione integrale della cauzione. Il principio guida è che, qualora il locatore non riesca a dimostrare in sede giudiziale specifici danni imputabili al conduttore, la somma versata a titolo di deposito deve essere restituita, unitamente agli interessi legali, per non arrecare ulteriori ingiustizie e per preservare il diritto all’abitazione dignitosa.

In conclusione, se l’inquilino è costretto a recedere dall’affitto a causa di problemi seri e comprovati di muffa e umidità, generati da una chiara inadempienza del proprietario, la normativa e la prassi giurisprudenziale impongono la restituzione della cauzione. La tutela del conduttore si concretizza attraverso la possibilità di contestare, in sede giudiziaria, il comportamento del locatore e di ottenere non solo la restituzione del deposito, ma anche eventuali risarcimenti per i danni subiti. L’approccio dei tribunali, infatti, ribadisce l’importanza di garantire al conduttore il diritto al godimento dell’immobile, stabilendo che la mancata restituzione della cauzione, in assenza di evidenze documentate di danni effettivi, rappresenta una violazione dei principi di buona fede e correttezza contrattuale.

La Controversia sull’Impugnabilità della Lettera di Presa in Carico – Un’Analisi Approfondita

L’argomento dell’impugnabilità della lettera di presa in carico rappresenta una questione di notevole rilevanza nel contesto della riscossione tributaria. A seguito di un accertamento immediatamente esecutivo, notificato dall’Agenzia delle Entrate o dall’INPS, il successivo atto emesso dall’Agenzia Entrate Riscossione è la lettera di presa in carico. Questo documento, che sostituisce definitivamente la tradizionale cartella esattoriale, ha il compito di informare il debitore dell’avvio del procedimento esecutivo, segnalando formalmente l’esistenza dell’avviso di accertamento. L’innovazione introdotta dalle recenti riforme tributarie ha previsto, infatti, la progressiva eliminazione della cartella esattoriale a favore di avvisi immediatamente esecutivi, sollevando così il quesito se la comunicazione di presa in carico possa essere impugnata come avveniva in passato per la cartella esattoriale.

La giurisprudenza di legittimità si è espressa in maniera chiara su questo punto, stabilendo che la comunicazione di presa in carico non rientra tra gli atti impugnabili ai sensi dell’articolo 19 del Dlgs 546/1992. I tribunali hanno sottolineato che, pur potendo esistere dei vizi nella notifica dell’avviso di accertamento, questi non incidono sulla legittimità della lettera di presa in carico. Infatti, la finalità di tale atto è esclusivamente informativa; esso non modifica la posizione giuridica del contribuente, ma si limita a rendere noto l’avvio del procedimento di riscossione. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 4903 depositata il 26 febbraio, ha confermato che l’impugnazione deve attendere la notifica di un provvedimento lesivo, come ad esempio un pignoramento o l’istituzione di un’ipoteca, in quanto è su tali atti che gravano gli effetti concreti sulla sfera giuridica del debitore.

Il caso che ha portato alla decisione in Cassazione riguarda un contribuente che, venuto a conoscenza dell’accertamento solo al momento della notifica della presa in carico, aveva impugnato l’avviso di accertamento lamentando un vizio nella notifica. Tale ricorso, esaminato sia in primo che in secondo grado, è stato respinto, poiché la mera comunicazione della presa in carico non costituisce un atto lesivo. I giudici hanno ritenuto che il diritto di impugnare un atto amministrativo presuppone l’esistenza di un interesse concreto e immediato, e in questo caso il contribuente non subiva alcun danno diretto dall’atto informativo, il quale non rientrava tra quelli elencati per legge come impugnabili.

La questione assume una connotazione ancora più articolata quando si considera la dinamica degli atti prodromici e degli atti lesivi. Se al contribuente fosse stato notificato un atto che incide direttamente sui suoi interessi – come un’intimazione di pagamento o un provvedimento che comporta misure esecutive – allora il vizio nella notifica dell’avviso di accertamento a monte potrebbe costituire un elemento da far valere in giudizio. In quella situazione, il contribuente avrebbe avuto la facoltà di contestare sia il provvedimento lesivo, basandosi sull’invalidità della notifica dell’atto prodromico, sia di sollevare ulteriori eccezioni legate alla validità o alla sostanza dell’accertamento stesso. Tuttavia, la situazione si complica ulteriormente qualora si tratti di casi in cui l’Agenzia Entrate Riscossione fornisce estratti di ruolo contenenti cartelle che non sono mai state debitamente notificate o che presentano irregolarità nella notifica. Anche in tali circostanze, il contribuente non può impugnare direttamente l’atto in questione, ma deve attendere la successiva notifica di un atto effettivamente lesivo, come l’intimazione di pagamento o il preavviso di ipoteca, che produca effetti concreti sulla sua situazione patrimoniale.

L’orientamento della giurisprudenza evidenzia come il diritto di agire in giudizio sia strettamente vincolato alla presenza di un danno concreto e immediato. In altre parole, se il contribuente subisce una comunicazione puramente informativa, come la presa in carico, non sussiste un interesse processuale sufficiente per giustificare l’impugnazione dell’atto. La Corte Suprema ha altresì osservato che, anche se l’avviso di accertamento fosse stato notificato in modo non corretto, tale irregolarità non produce effetti dannosi per il contribuente, non incidendo in modo significativo sulla sua sfera giuridica. Solo in presenza di un atto successivo, che materializzi un danno o una limitazione del diritto di difesa, si configura il presupposto per l’impugnazione.

In conclusione, la lettera di presa in carico, pur derivando da un avviso di accertamento eventualmente notificato in maniera difettosa, non è impugnabile in quanto essa non altera la posizione giuridica del contribuente e non rientra tra gli atti suscettibili di impugnazione secondo la normativa vigente. La tutela del contribuente si concretizza invece nell’opportunità di contestare successivamente provvedimenti lesivi, nei quali eventuali vizi procedurali o di notifica possano effettivamente compromettere i suoi diritti. L’approccio adottato dalla giurisprudenza sottolinea l’importanza di distinguere tra atti informativi e atti effettivamente lesivi, evidenziando come l’interesse processuale sussista solo nel caso in cui venga notificato un provvedimento che incida in modo concreto e negativo sulla posizione del debitore. Tale orientamento garantisce un equilibrio tra l’esigenza di efficacia dell’azione di riscossione e la tutela dei diritti del contribuente, assicurando che eventuali impugnazioni siano fondate su reali danni patrimoniali o limitazioni del diritto di difesa.

 

 

Usucapione del Sottoscala – Requisiti, Dimostrazione e Procedura Giudiziaria

La risposta al quesito risulta tendenzialmente positiva: è possibile usucapire il sottoscala, purché siano soddisfatti integralmente tutti i requisiti previsti dagli articoli 1158 e seguenti del Codice Civile. Il possesso deve essere esercitato in maniera continuativa, ininterrotta e pubblica per il periodo richiesto, il che significa che ogni condizione normativa deve essere rigorosamente rispettata per permettere il riconoscimento del diritto acquisitivo.

Per poter acquisire la proprietà di un sottoscala altrui mediante usucapione, il possesso deve essere esercitato come se si fosse il proprietario, senza riconoscere in alcun modo il diritto del legittimo titolare. In altre parole, l’utilizzo del bene deve essere pubblico, evidente e non occulto, nonostante la natura solitamente poco illuminata di un sottoscala. È essenziale che il possesso sia mantenuto in maniera pacifica e senza alcuna opposizione del proprietario, tanto che contestazioni verbali o diffide scritte non bastano a dimostrare l’assenza di contrasto: occorre, infatti, una notifica formale in sede giudiziaria, quale atto di citazione, per evidenziare che il possesso è stato esercitato senza turbative. Inoltre, il possesso non deve essere ottenuto con atti di forza o intimidazioni, né può essere considerato legittimo se il sottoscala viene utilizzato in base a un accordo precario, come il comodato d’uso gratuito. L’elemento fondamentale è quello di comportarsi “uti dominus”, ossia di agire come se il bene fosse di propria proprietà, dimostrando così l’intenzione inequivocabile di esercitare il diritto acquisitorio.

La dimostrazione dell’usucapione si fonda su atti materiali che rivelano l’interversione del possesso, concetto espressamente indicato dall’articolo 1164 del Codice Civile. Atti di questo genere possono includere, ad esempio, interventi di manutenzione, ristrutturazione o miglioramento del sottoscala, come il rifacimento degli intonaci, la verniciatura dei muri, la chiusura dell’accesso con una porta o un cancello e l’allestimento di arredi che evidenzino un utilizzo esclusivo. Tali comportamenti, che attestano una gestione autonoma e continuativa del bene, sono particolarmente rilevanti quando il sottoscala è situato in un contesto condominiale o è condiviso tra più comproprietari. In questi casi, il possessore dovrà dimostrare in maniera inequivocabile di aver escluso ogni altra forma di godimento da parte degli altri aventi diritto, rendendo evidente che il suo possesso si è concretamente imposto nel tempo.

Il percorso per ottenere il riconoscimento dell’usucapione non è automatico, ma richiede un intervento giudiziario volto ad accertare l’effettivo soddisfacimento di tutti i requisiti normativi. In sede di causa, il possessore dovrà presentare una prova rigorosa e completa dell’esercizio ininterrotto del possesso per il periodo legale, utilizzando testimonianze, documentazioni, fotografie e ogni altro mezzo idoneo a confermare l’uso esclusivo del sottoscala. È necessario dimostrare in maniera esaustiva che, fin dall’inizio, il possesso non solo è stato continuativo, ma ha anche comportato l’esclusione del godimento del bene da parte di terzi. Un eventuale cambiamento di comportamento, in cui l’uso del sottoscala passa da una situazione di utilizzo sporadico e precario a quella di un possesso esclusivo e determinato, può costituire il momento decisivo in cui inizia a decorrere il termine per l’usucapione. In questo contesto, ogni atto che dimostri la volontà di trattare il bene come proprio, come ad esempio la chiusura dell’accesso o la realizzazione di lavori di manutenzione, contribuisce in maniera significativa a rafforzare la tesi usucapitoria.

Nel corso della causa il proprietario potrà cercare di contestare il possesso, sostenendo che il sottoscala è rimasto a sua disposizione oppure che il possesso è stato esercitato in maniera precaria o addirittura acquisito con mezzi illeciti. Di conseguenza, l’insieme delle prove presentate deve essere così convincente da smontare ogni eventuale argomentazione contraria, facendo emergere in maniera chiara e inconfutabile che tutti i requisiti necessari sono stati pienamente soddisfatti. Solo in questo modo il giudice potrà dichiarare l’usucapione del sottoscala e procedere alla trascrizione della sentenza nei registri immobiliari.

In conclusione, la possibilità di usucapire il sottoscala esiste, ma si fonda su un iter rigoroso e stringente che richiede l’adempimento di tutte le condizioni previste dal Codice Civile. Il successo dell’azione usucapitoria dipende dalla capacità di dimostrare un possesso pubblico, esclusivo, non precario e continuativo per il periodo previsto, comportando un vero e proprio comportamento da proprietario. Questo percorso, seppur complesso e non automatico, si rivela praticabile qualora il possessore sia in grado di fornire prove concrete e inoppugnabili, garantendo così la trasformazione del possesso in un diritto reale riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico.

Asseverazione e Autocertificazione nell’Urbanistica

Il deferimento al privato della verificazione della regolarità dei progetti e delle costruzioni, con relativa responsabilità penale, ha avuto un notevole sviluppo con l’entrata in vigore, nel 1993, della Denuncia di Inizio Attività (DIA), alla quale ha fatto seguito la normativa sullo Sportello unico delle attività produttive e, successivamente, la normativa del T.U.Ed. di cui al D.P.R. n. 380/2001.

Si possono distinguere l’asseverazione o l’autocertificazione da parte dei professionisti abilitati e l’autocertificazione da parte dei privati richiedenti.
A) La certificazione di regolarità dell’opera, denominata asseverazione da parte dei professionisti abilitati, è oggi prevista da:
1) L’art. 23, comma 1° del T.U.Ed. sull’asseverazione del progetto nell’ambito della Denuncia di Inizio Attività, cui fa seguito il collaudo finale asseverativo, previsto dal successivo comma 7° dell’art. 23 dello stesso T.U., sulla regolarità di esecuzione delle opere realizzate con DIA.
Oggetto dell’asseverazione sono essenzialmente la (fedele) raffigurazione dell’esistente (edificio e terreno edificabile) e la conformità del progetto alle norme vigenti.
Questa asseverazione-certificazione non ha valore assoluto, in quanto il Comune può disattendere l’asseverazione stessa, contestandola. Ove essa sia falsa, essendo il professionista asseveratore qualificabile come incaricato di pubblico servizio, esso è soggetto alle pene previste dall’art. 481 del Codice Penale. Sotto tale profilo, va comunque rilevato che trattasi di un reato in cui si risponde solo per dolo (ossia per piena coscienza di dichiarare il falso) e non per colpa. Si può pertanto osservare che l’interpretazione della normativa urbanistico-edilizia può essere sovente priva di certezze, specie per la presenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione delle norme, per cui il dolo non è sempre pienamente ravvisabile.
Il reato è punito con la reclusione fino ad un anno o la multa da euro 51,00 ad euro 516,00. Le due pene sono applicate congiuntamente se il fatto è eseguito a scopo di lucro.
2) Gli artt. 6 e seguenti del D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, sullo Sportello unico per le attività produttive, non riservano espressamente ai professionisti abilitati la prevista autocertificazione della conformità del progetto alle norme.
Tale normativa ammette l’autocertificazione della conformità del progetto alle prescrizioni previste dalle norme vigenti, redatta da professionisti abilitati o da associazioni di professionisti, sottoscritta dai medesimi unitamente allegale rappresentante dell’impresa.
Sotto questo profilo, l’autocertificazione assume la natura della asseverazione o autocertificazione professionale, in quanto il privato, che non sia professionista abilitato, non appare in sé unico legittimato a sottoscrivere l’autocertificazione in questione.
Sicché la responsabilità penale in materia, per l’autocertifica-zione professionale, può includersi nelle citate previsioni dell’art. 481 del Codice Penale, considerandosi il professionista abilitato come soggetto esercente un servizio di pubblica necessità, mentre il privato potrà rispondere ai sensi dell’art. 483 del Codice Penale.

B) L’autocertificazione classica, consistente nella dichiarazione di verità da parte del privato, indipendentemente dalla sua qualifica professionale e che si inquadra in quello che a suo tempo è stato definito come atto sostitutivo di atto notorio, è oggi prevista e regolata dagli artt. 38 e 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 ed è sanzionata penalmente (art. 76 del detto D.P.R.) dal disposto dell’art. 483 del Codice Penale, che punisce la falsa dichiarazione di privato a pubblico ufficiale in atto pubblico con la detenzione fino a due anni. Anche in questo caso si tratta di reato solo doloso.

L’autocertificazione del privato è prevista dall’art. 20 comma 1° del T.U.Ed. nel procedimento di formazione del permesso di costruire, relativamente alla conformità del progetto alle norme igieniche e sanitarie, nel caso in cui il progetto riguardi interventi di tipo residenziale, ovvero la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali.

L’autocertificazione del progetto, che ha natura tecnico giuridica, emessa da un privato secondo la norma citata, pone consistenti problemi, visto che trattasi di norme di natura tecnica complessa, in cui il privato non professionista non appare del tutto titolato a tale funzione (e responsabilità). Peraltro, poiché la norma del citato art. 20 è di natura regolamentare, essa potrà essere opportunamente modificata da parte del regolamento edilizio comunale.

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